Estragon, Bologna. Nuovamente un festival infrasettimanale. Nuovamente biglietto da 30€. Nuovamente un pubblico sottotono, nel numero e nell'umore, decisamente non da grandi occasioni. Eppure, all'Into Darkness, hanno suonato quest'anno gruppi che raramente si vedono sui palchi italici. C'è qualcosa che la Rock The Nation dovrebbe ripensare?
Ad ogni modo, per chi c’era e chi no, ecco quanto accaduto nella tappa bolognese dell'ultimo nato tra i festival RTN, Into Darkness, edizione 2012
Ad ogni modo, per chi c’era e chi no, ecco quanto accaduto nella tappa bolognese dell'ultimo nato tra i festival RTN, Into Darkness, edizione 2012
Ad aprire la serata sono i greci Scar of the Sun, che iniziano il set un po’ in sordina, con due brani poco aggressivi, 8th Ocean Dried e Disciple Of The Sun, che trovano un tiepido riscontro tra lo scarno pubblico presente. Andando avanti con il set, tratto dall’ultimo full-length A Series of Unfortunate Concurrencies, la band di Atene ritrova però il carisma, anche grazie agli interventi del suo frontman Terry Nikas capace, con il suo fluente italiano, di coinvolgere in maniera più attiva i presenti, anche con non casuali errori, come quello di confondere ripetutamente la venue bolognese con Milano, nonostante le correzioni degli astanti. Tuttavia, quello che manca a questo gruppo, senza dubbio con molte potenzialità, è un po’ di chiarezza nel proprio stile. Quello che la band stessa etichetta come modern atmospheric metal, è infatti un doom metal pesantemente ibridato dal death, dove a passaggi energici, dominati dalla chitarra di Greg Eleftheriou, si intervallano inaspettati stacchi strumentali, lenti e atmosferici. Nonostante questo aspetto, la closing track Gravity -sicuramente la migliore del set- dimostra che gli ateniesi non mancano di capacità e che da loro, con tutta probabilità, è lecito aspettarsi un futuro produttivo.
Setlist:
1. 8th Ocean Dried
2. Disciple Of The Sun
3. I Lost
4. Swansong Of Senses
5. Gravity
A smorzare i toni della serata, tuttavia, è il set degli svedesi Lake of Tears. On the road da 20 anni tondi, questo quartetto porta in scena un progressive/doom/gothic metal poco performante che, accompagnato dai vocals piuttosto scialbi del frontman Daniel Brennare, contribuisce a dare un senso di poca fluidità e coerenza all'interno dei brani, nondimeno a convincere una parte non trascurabile del pubblico ad occupare i lunghi 45 minuti loro dedicati con qualsiasi attività non includesse l'ascolto della performance. Un gruppo che dall'organizzazione ha ricevuto tanto, ma che ha saputo trasmettere poco, con un'interpretazione poco vissuta, una scelta di brani vagamente simili l'uno all'altra e ad una mancanza di entusiasmo generale. Non a caso, se dopo vent'anni di carriera si è ancora fermi a livello di opening act, un motivo ci deve pur essere.
Setlist:
1. Taste of hell2. Illwill
3. Demon you/lily Anne
4. Raven Land
5. The greymen
6. Boogie bubble
7. So fell fell autumn rain
8. House of the setting sun
9. Crazyman
A risollevare le sorti di una serata stravolta dai Lake of Tears ci pensano gli Swallow The Sun che, nonostante un set di durata ridotta, riescono a mettere in piedi un concerto molto interessante, che non comprende solo brani dall’ultimo, brillante album Emerald Forest and the Blackbird, ma spazia all’interno della discografia dei finlandesi fino a tornare agli esordi di The Morning Never Came.
Dal punto di vista strumentale la band si presenta concentrata e carica, dando ottima prova di sé, sotto l’egida di un marziale Kai Hahto, che già si era visto all’Estragon solo poche settimane prima a sostegno dei conterranei Wintersun. Pur mantenendo un rapporto tipicamente finlandese con il pubblico, un po’ freddino e privo di grandi discorsi, il sestetto si dimostra molto attivo sul palco e in grado di ravvivare anche i passaggi più lenti ed oscuri (rappresentativo in tal senso è l’atteggiamento on stage del tastierista Aleksi Munter). Ma, a guastare la festa del sestetto di Jyväskylä ci si mettono i problemi tecnici, che non vanno solo a rovinare la prima parte della centrale Labyrinth of London (Horror pt. IV), ma pregiudicano irreparabilmente i vocals del frontman Mikko Kotamäki, mal amplificati e davvero poco fruibili per l’intera durata dell’esibizione. Un peccato mortale, specialmente perché riguarda un combo che, come gli Swallow The Sun, non si esibisce di frequente in Italia.
Setlist:
1. Emerald Forest and the Blackbird
2. Out of This Gloomy Light
3. Labyrinth of London (Horror pt. IV)
4. Hold This Woe
5. Descending Winters
6. Night Will Forgive Us
In una serata senza un vero e proprio singolo headliner, molta attesa è stata riposta sui portoghesi Moonspell, in tour promozionale per la loro ultima, discussa release Alpha Noir. Tra il pubblico c’era chi si aspettava un set maggiormente improntato sui passati full-length e chi sperava (o temeva) in una scaletta legata esclusivamente ai nuovi brani. In realtà i Moonspell, che come più volte ricordato celebrano quest’anno i vent’anni di carriera musicale, optano invece per un’inaspettata terza via: quella sì di promuovere l’ultimo album, ma di portarne in live solo una piccola parte, saltando poi indietro di oltre un quindicennio, scegliendo le altre tracce esclusivamente da Wolfheart ed Irreligious (rispettivamente del 1995 e del 1996). La scelta dei lusitani sembra pagare perché, dopo un inizio targato 2012 (con tanto di elmo a tema Alpha Noir indossato da un Fernando Ribeiro in grande spolvero durante l’opening track Axis Mundi), il pubblico inizia realmente a scaldarsi con le incisive ed oscure Opium e Wolfshade (A Werewolf Masquerade), noti cavalli di battaglia del quintetto di Brandoa. La band, in grado di dar prova praticamente inappuntabile delle proprie capacità, rende omaggio numerose volte al pubblico italiano, fino a dedicargli in chiusura la classica Alma Mater, che manda in delirio un’audience capace letteralmente di seppellire Ribeiro e soci sotto un muro di grida cantate. Una buonissima esibizione dunque, quella targata Moonspell, capace di rappresentare un giusto compromesso tra passato e presente, tra mera promozione e grandi classici, che davvero non ha completamente scontentato nessuno.
Setlist:
1. Axis Mundi
2. Alpha Noir
3. Opium
4. Awake
5. Wolfshade (A Werewolf Masquerade)
6. Lickanthrope
7. Em Nome Do Medo
8. Vampiria
9. Alma Mater
10. Full Moon Madness
A chiudere il festival, gli svedesi più attesi della serata: i Pain. Reduci dal mezzo fiasco di You Only Live Twice e in tour promozionale in supporto all'ultima fatica, il DVD We Come in Peace, i quattro di Stoccolma decidono di optare per una scaletta classica, ricca di grandi successi e hits storiche, molto simile a quella già portata in scena nel 2008 nel tour a supporto dei Nightwish. Tuttavia, se dal punto di vista strumentale la band dà ampia prova delle sue capacità, non si può dire lo stesso per i vocals di Peter Tägtgren che, specialmente in clean, zoppica in maniera vistosa, glissando a tratti brevi passaggi dei testi. Si saprà poi che il frontman non è salito on stage nel massimo della forma fisica, ma c'è da dire che il produttore e multistrumentista scandinavo non è stato nemmeno particolarmente fortunato, tanto da dover cambiare in corsa microfono durante l'esecuzione del cavallo di battaglia finale Shut Your Mouth. Il pubblico presente sembra comunque non fare troppo caso alle varie vicissitudini del cantante, acclamando la band per tutta la durata del set, lungo solamente sessanta minuti. Chissà che magari i Pain decidano di organizzare un'altra calata europea a breve, questa volta veramente come headliner.
1. Same Old Song
2. I’m Going In
3. Walking on Glass
4. Zombie Slam
5. Dirty Woman
6. Monkey Business
7. End of the Line
8. The Great Pretender
9. Dark Fields of Pain
10. It’s Only Them
11. Let Me Out
12. On and On
13. Shut Your Mouth
Tutte le foto di questo report sono di Emma Costi
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pain <3
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